domenica 24 maggio 2015

IMMIGRAZIONE : LA POLITICA DELL'EMERGENZA

Il più grande problema che i governi europei si trovano oggi a dover affrontare non è quello della crisi economica, né tantomeno i capricci del Regno Unito, o l'avanzata dell'esercito del califfato. Il problema più complesso è quello dell'immigrazione, del riuscire a gestire, e controllare, migliaia di persone che ogni giorno cercano la fuga e inseguono la disperata speranza di poter vivere una vita degna di questo nome. I governi occidentali sembrano non riuscire a trovare nessuna soluzione per risolvere questo problema e sembrano continuare a mettere in secondo piano la vita delle persone. L'immigrazione, in questi termini, è un problema squisitamente politico e, anche se può essere strano a dirsi, i governi sono sempre meno abituati a trattare problemi Politici.

I territori africani, soprattutto le regioni dell'Africa centrale, sono sempre state considerate e utilizzate come una fonte di materie prime a cui gli stati occidentali potevano accingere liberamente. Dopo la fine del colonialismo abbiamo assistito alla presa di potere da parte di attori che agiscono all'interno del mercato svincolati dal potere statale. Questi organismi hanno avuto modo di prendere possesso, approfittando della debolezza del sistema politico locale africano, dei mercati, diventando determinanti sia per la sfera economica sia per quella politica. Il sistema che si basa sull'egemonia della logica economica ha permesso alle multinazionali di arricchirsi in maniera sorprendente. Spolpando letteralmente gli stati africani dall'interno è stato loro possibile arrivare a fatturare molto più del PIL degli stessi paesi da cui traevano ricchezza. Soprattutto a partire dagli anni '60 del Novecento abbiamo assistito all'affermazione, su scala mondiale, del paradigma neoliberale. Mentre nel liberalismo la sfera politica e quella economica risultano sempre distinguibili, nelle logiche e nelle pratiche della «condizione neoliberale» ogni decisione sul governo delle vite passa attraverso il filtro della razionalità economica, rendendo inutile e impossibile la distinzione tra economia e politica.

Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte”

Ciò che sta accadendo nel territorio africano, le incertezze politiche e i problemi sociali che governano queste zone, viene spesso letto come una conseguenza, quasi endemica, del tribalismo che ancora affligge il perennemente arretrato continente africano. Questa visione risulta essere afflitta da un evidente pregiudizio eurocentrista oltre a essere decisamente inadeguata per comprendere realmente la situazione della politica africana. Leggendo in continuità la politica coloniale e quella post-coloniale si perde l'immagine dell'Africa tribale, incapace di darsi strutture politiche stabili e durature, a causa di un'inadeguatezza politico culturale che attraversa tutto il continente. Questa instabilità conduce alla formazione di gruppi di potere, spesso di etnie differenti, che si combattono tra loro lasciando terreno fertile, a causa del vuoto politico e amministrativo, ai grandi capitali internazionali. Applicando la nozione di biopolitica è possibile comprendere la situazione africana nella sua complessità, senza banalizzarla, ed evitando di cadere nei pregiudizi razziali del colonialismo. È possibile, quindi, leggere il territorio africano come un “laboratorio biopolitico” nel quale vengono sperimentate nuove forme di dominio ai danni degli strati più bassi della popolazione. Le élite dominanti permettono l'ingresso di capitali stranieri svendendo le risorse indigene e per gestire le numerose crisi umanitarie, così facendo accumulano enormi ricchezze che vengono suddivise nel gruppo che sostiene il potere centrale. La violenza che spopola all'interno della politica africana non è un fenomeno di arretrato tribalismo ma, tutt'altro, un fenomeno profondamente moderno, che diventa il modo migliore per adattarsi ai flussi di denaro che attraversano la regione.
Questa instabilità crea non solo flussi di denaro ma, soprattutto, flussi di persone che combattono per la propria sopravvivenza. L'enorme numero di persone in cerca di salvezza diventa un problema per l'Europa che non è più in grado di gestire e controllare flussi di questo tipo e dimensioni a causa, anche, dei forti movimenti migratori che avvengono all'interno dell'Europa stessa.


È in tale scenario che si può comprendere al meglio la portata non più biopolitica delle politiche nel territorio africano bensì tanatopolitica. Se la biopolitica è la strategia di gestione delle vite la tanatopolitica, al contrario, è la gestione della morte. Ritorna il diritto di “far morire o lasciar vivere” che si credeva superato dopo la fine del nazismo che stabiliva la differenza tra vite da salvaguardare e vite indegne di essere vissute.
La strategia messa in atto dai governi europei è molto semplice: inquadrare il problema delle migrazioni nel Mediterraneo come un'emergenza. Un evento che va affrontato con istituzioni speciali che vanno al di là della politica per radicarsi nel regime dell'eccezione. Ciò permette a queste presunte emergenze di essere affrontate senza che siano poste domande su chi sia il responsabile di questi eventi, e su come possano essere evitate in futuro. Non vi è il tempo per porsi tali domande. È un'emergenza.
La maggior parte di quelle considerate emergenze umanitarie non sono, in realtà, emergenze in senso stretto, causate cioè da eventi improvvisi e imprevedibili. Sono, in effetti, la diretta conseguenza di politiche neoliberali. Le morti nel Mediterraneo non sono eccezionali ma sono frutto di precise politiche comunitarie e della violenza strutturale cui si accennava sopra.
Le strategie di intervento umanitario gestite in regime di eccezionalità sono quindi strategie di potere che risultano avere un duplice scopo: da un lato la volontà di mantenere lo status quo, ovvero far in modo che nulla realmente cambi; dall'altro, eliminare ancora una volta la possibilità di un intervento politico concedendosi la licenza di agire in perenne eccezionalità.


Quali sono quindi le possibili soluzioni a questo problema? La soluzione è una soltanto. Semplice quanto, in realtà, enormemente complessa. Bisogna mettere fine a pratiche securitarie atte semplicemente a preservare i confini e a difenderci dall'invasione. Bisogna avere la forza di opporsi al regime di emergenza per aprire spazi di confronto politico che riescano a mettere in questione la gestione dei confini e, soprattutto, il valore della vita umana. L'emergenza, per sua natura, ci spinge ad agire, senza far domande (Riflettete sui titoli dei giornali dopo la strage del 19 Aprile. Un turbinio di agire, agiamo, facciamo, ora, adesso...). Bisogna aver la forza di rifiutare l'analogia tra l'azione e l'emergenza e a volte semplicemente comprendere come il pensiero possa, e debba, diventare azione. Credo sia ancora possibile creare uno spazio di discussione politica che possa cambiare il modo attraverso il quale leggiamo la realtà per tornare a porre l'essere umano, non più come mera vita, al centro di un progetto politico globale.



Oggi siamo quello che siamo, non perché nella preistoria non ci fossero i migranti, ma perché non c’era nessuno a fermarli.”

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