Il più grande problema che i governi europei
si trovano oggi a dover affrontare non è quello della crisi
economica, né tantomeno i capricci del Regno Unito, o l'avanzata
dell'esercito del califfato. Il problema più complesso è quello
dell'immigrazione, del riuscire a gestire, e controllare, migliaia di
persone che ogni giorno cercano la fuga e inseguono la disperata
speranza di poter vivere una vita degna di questo nome. I governi
occidentali sembrano non riuscire a trovare nessuna soluzione per
risolvere questo problema e sembrano continuare a mettere in secondo
piano la vita delle persone. L'immigrazione, in questi termini, è un
problema squisitamente politico e, anche se può essere strano a
dirsi, i governi sono sempre meno abituati a trattare problemi
Politici.
I
territori africani, soprattutto le regioni dell'Africa centrale, sono
sempre state considerate e utilizzate come una fonte di materie prime
a cui gli stati occidentali potevano accingere liberamente. Dopo la
fine del colonialismo abbiamo assistito alla presa di potere da parte
di attori che agiscono all'interno del mercato svincolati dal potere
statale. Questi organismi hanno avuto modo di prendere possesso,
approfittando della debolezza del sistema politico locale africano,
dei mercati,
diventando determinanti sia per la sfera economica sia per quella
politica. Il sistema che si basa sull'egemonia della logica economica
ha permesso alle multinazionali di arricchirsi in maniera
sorprendente. Spolpando letteralmente gli stati africani dall'interno
è stato loro possibile arrivare a fatturare molto più del PIL degli
stessi paesi da cui traevano ricchezza. Soprattutto a partire dagli
anni '60 del Novecento
abbiamo assistito all'affermazione, su scala mondiale, del paradigma
neoliberale. Mentre nel liberalismo la sfera politica e quella
economica risultano sempre distinguibili, nelle logiche e nelle
pratiche della «condizione neoliberale» ogni decisione sul governo
delle vite passa attraverso il filtro della razionalità economica,
rendendo inutile e impossibile la distinzione tra economia e
politica.
“Si potrebbe dire che al vecchio diritto
di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far
vivere o di respingere nella morte”
Ciò
che sta accadendo nel territorio africano, le
incertezze politiche e i problemi sociali che governano queste zone,
viene spesso letto come una conseguenza, quasi endemica, del
tribalismo che ancora affligge il perennemente arretrato continente
africano. Questa visione risulta essere afflitta da un evidente
pregiudizio eurocentrista oltre a essere decisamente inadeguata per
comprendere realmente la situazione della politica africana. Leggendo
in continuità la politica coloniale e quella post-coloniale si perde
l'immagine dell'Africa tribale, incapace di darsi strutture politiche
stabili e durature, a causa di un'inadeguatezza politico culturale
che attraversa tutto il continente. Questa instabilità conduce alla
formazione di gruppi di potere, spesso di etnie differenti, che si
combattono tra loro lasciando terreno fertile, a causa del vuoto
politico e amministrativo, ai grandi capitali internazionali.
Applicando la nozione di biopolitica è possibile comprendere la
situazione africana nella sua complessità, senza banalizzarla, ed
evitando di cadere nei pregiudizi razziali del colonialismo. È
possibile, quindi, leggere il territorio africano come un
“laboratorio biopolitico” nel quale vengono sperimentate nuove
forme di dominio ai danni degli strati più bassi della popolazione.
Le élite dominanti permettono l'ingresso di capitali stranieri
svendendo le risorse indigene e per gestire le numerose crisi
umanitarie, così facendo accumulano enormi ricchezze che vengono
suddivise nel
gruppo che sostiene il potere centrale. La violenza che spopola
all'interno della politica africana non è un fenomeno di arretrato
tribalismo ma, tutt'altro, un fenomeno profondamente moderno, che
diventa il modo migliore per adattarsi ai flussi di denaro che
attraversano la regione.
Questa
instabilità crea non solo flussi di denaro ma, soprattutto, flussi
di persone che combattono per la propria sopravvivenza. L'enorme
numero di persone in cerca di salvezza diventa un problema per
l'Europa che non è più in grado di gestire e controllare flussi di
questo tipo e dimensioni a causa, anche, dei forti movimenti
migratori che avvengono all'interno dell'Europa stessa.
È
in tale scenario che si può comprendere al meglio la portata non
più biopolitica delle politiche nel territorio africano bensì
tanatopolitica.
Se la biopolitica è la strategia di gestione delle vite la
tanatopolitica, al contrario, è la gestione della morte. Ritorna il
diritto di “far morire o lasciar vivere” che si credeva superato
dopo la fine del nazismo che stabiliva la differenza tra vite da
salvaguardare e vite indegne di essere vissute.
La
strategia messa in atto dai governi europei è molto semplice:
inquadrare il problema delle migrazioni nel Mediterraneo come
un'emergenza.
Un evento che va affrontato con istituzioni speciali che vanno al di
là della politica per radicarsi nel regime dell'eccezione.
Ciò permette a queste presunte
emergenze di essere affrontate senza che siano poste domande su chi
sia il responsabile di questi eventi, e su come possano essere
evitate in futuro. Non vi è il tempo per porsi tali domande. È
un'emergenza.
La
maggior parte di quelle considerate emergenze umanitarie non sono, in
realtà, emergenze in senso stretto, causate cioè da eventi
improvvisi e imprevedibili. Sono, in effetti, la diretta conseguenza
di politiche neoliberali. Le morti nel Mediterraneo non sono
eccezionali ma sono frutto di precise politiche comunitarie e della
violenza strutturale cui si accennava sopra.
Le
strategie di intervento umanitario gestite in regime di eccezionalità
sono quindi strategie di potere che risultano avere un duplice scopo:
da un lato la volontà di mantenere lo status quo, ovvero far in modo
che nulla realmente cambi; dall'altro, eliminare ancora una volta la
possibilità di un intervento politico concedendosi la licenza di
agire in perenne eccezionalità.
Quali
sono quindi le possibili soluzioni a questo problema? La soluzione è
una soltanto. Semplice quanto, in realtà, enormemente complessa.
Bisogna mettere fine a pratiche securitarie atte semplicemente a
preservare i confini e a difenderci dall'invasione.
Bisogna avere la forza di opporsi al regime di emergenza per aprire
spazi di confronto politico che riescano a mettere in questione la
gestione dei confini e, soprattutto, il valore della vita umana.
L'emergenza, per sua natura, ci spinge ad agire, senza far domande
(Riflettete sui titoli dei giornali dopo la strage del 19 Aprile. Un
turbinio di agire, agiamo, facciamo,
ora, adesso...). Bisogna aver la forza
di rifiutare l'analogia tra l'azione e l'emergenza e a volte
semplicemente comprendere come il pensiero possa, e debba, diventare
azione. Credo sia ancora possibile creare uno spazio di discussione
politica che possa cambiare il modo attraverso il quale leggiamo la
realtà per tornare a porre l'essere umano, non più come mera vita,
al centro di un progetto politico globale.
“Oggi
siamo quello che siamo, non perché nella preistoria non ci fossero i
migranti, ma perché non c’era nessuno a fermarli.”
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